Il processo romano
“eretica pravità”
Il primo periodo di prigionia di Bruno a Roma non conosce eventi nuovi almeno fino al settembre del 1593. La situazione si presenta negli stessi termini che nella fase finale di Venezia: l’imputato si dichiara pentito, ammette le sue colpe, si giustifica adducendo l’involontarietà. Non esistono, comunque, prove certe di «eretica pravità».
Appunto nel settembre, però, un colpo di scena decisivo per imprimere un nuovo andamento al processo si verifica a seguito della denuncia di un compagno di prigionia del Nolano nel carcere veneziano, il cappuccino
Celestino da Verona. La sua testimonianza dimostra che, anche dopo l’abiura e la contrizione, Bruno aveva continuato a sostenere le opinioni, quanto meno eterodosse, per le quali era stato condannato e che, inoltre, aveva tenuto comportamenti irriguardosi, al limite della scurrilità, nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche.
Da questo momento il processo riprende con vigore: ci sono tredici imputazioni nuove, nuove testimonianze. Cadono soprattutto due capisaldi della difesa di Bruno: l’unicità della testimonianza accusatoria del Mocenigo (
unus testis, nullus testis) e il pentimento del Nolano.