I rapporti col Papato
In coena Domini
Le teorizzazioni politiche, soprattutto in ambito giurisdizionalista, sui rapporti tra Stato e Chiesa, dopo la energica presa di posizione del Papato con il Concilio di Trento, precedono e preannunciano quello che, in pratica, sarà l’urto fra l’assolutismo del nuovo Stato e l’assolutismo della Chiesa rinnovata e riorganizzata. Con la pubblicazione della bolla
In coena Domini del 1568, da parte di Pio V, i rapporti fra i vari Stati europei, compresi gli italiani, e il Papato divennero molto tesi.
Con quella bolla si faceva divieto ai principi di accogliere nei territori dei loro Stati persone di religione non cattolica e, persino, di avere con esse corrispondenze o rapporti; si vietava altresì di ricorrere al Concilio ecumenico contro quelle sentenze papali che fossero considerate ingiuste; di punire per colpe civili non solo i cardinali, i prelati e i giudici ecclesiastici, ma anche i loro agenti, procuratori e congiunti. I sovrani temporali non potevano imporre pedaggi, gabelle, prestiti, decime sui beni dei chierici senza l’approvazione della curia romana. I sudditi dovevano essere liberi di emigrare per trasferirsi a Roma. La rendita delle chiese, dei monasteri e i benefici ecclesiastici non potevano essere sequestrati dall’autorità laica. Tutte le cause che riguardassero questioni del genere dovevano essere sottratte al foro temporale e riservate a quello ecclesiastico. Al principe era proibito l’esercizio dell’
exequatur sulle concessioni e i decreti pontifici. Doveva infine considerarsi scomunicato quel principe che occupasse terre della Chiesa o le muovesse guerra.
Ovviamente tutti gli Stati europei grandi e piccoli, non esclusi quelli italiani, reagirono vivacemente contro questo tentativo di ripresa di una teocrazia di stampo medievale. Venezia proibì ai suoi soggetti di ricevere la bolla e aprì una lunga e importante
controversia col Papato.