Il brigantaggio
Attacco alla ricchezza privata
Il Regno di Napoli era esposto a un genere di incursioni ignote alle popolazioni continentali: gli assalti della pirateria barbaresca, che si protrassero fino al XVIII secolo. Molti rivieraschi cadevano schiavi dei pirati, in compenso non mancavano schiavi turchi a Napoli. A questa piaga si aggiungeva quella del brigantaggio. Brigantaggio e banditismo, per la verità, erano, in quel periodo, estremamente diffusi in tutti gli Stati d’Italia e anche oltre confine: uomini irrequieti, indebitati o fuggiaschi per motivi politici o religiosi, o semplicemente evasi o soldati smobilitati si riunivano in bande militarmente organizzate e minacciavano strade e persino luoghi abitati.
Le condizioni di sicurezza erano comunque peggiori nell’Italia centrale e meridionale in cui più pesantemente si facevano sentire le conseguenze sociali del processo di rifeudalizzazione e risultavano più acuti i sintomi di un orientamento antispagnolo, e più generalmente antistatale, fra le classi maggiormente colpite dalla pesante politica fiscale dei viceré. Qui dunque i fenomeni del brigantaggio e del banditismo acquistarono una speciale virulenza e si configurarono come attacco di massa alla ricchezza privata e come estensione anarchica della lotta contro la rendita. Alla violenza dell’attacco rispose, con altrettanta forza, la repressione della corona: a metà del XVI secolo il viceré Toledo poteva dichiarare di avere impiccato e arrotato 18.000 persone.
Le operazioni di rastrellamento e i barbari sistemi giudiziari fecero sì che, sul finire del secolo, il grande brigantaggio risultasse stroncato, almeno nella sua forma più evidente, perfino nell’Appennino calabrese, che con Re Marcone, Marco Bernardi, aveva conosciuto uno dei più famosi briganti dell’epoca.